Storia del Tibet dalle origini al 1959

Il Tetto del Mondo dall'antichità all'esilio del XIV Dalai Lama in India.

nodo dell'eternità
Motivo tradizionale del Nodo senza fine
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Ritengo che, per avere una visione obiettiva della questione tibetana, sia necessario analizzare in modo imparziale la storia: non solo quella contemporanea, ma anche quella più remota. In questo modo si possono meglio comprendere le posizioni odierne delle parti (cinese e tibetana), che traggono origine dalla loro complessa relazione, sviluppatasi nell'arco di quattordici secoli.

Il Tibet fu dimora dell'Homo Sapiens già nel Paleolitico Superiore e nel Neolitico, fatto testimoniato da alcuni insediamenti e da reperti di pietre lavorate per ricavarne degli utensili.

Le tradizioni sulla storia antica del Tibet non forniscono informazioni certe, e si perdono nel mito. Pur non trattandosi di fatti storici, se ne riporta di seguito una breve narrazione perché essi hanno una notevole rilevanza nell'identità culturale tibetana.

Un racconto ancestrale narra dell'origine del popolo tibetano come esito della relazione tra il Bodhisattva Avalokiteśvara ed una demonessa. Dall'unione sarebbero nati i capostipiti delle tribù tibetane originarie.

La cronologia mitologica vede in gNya' khri bTsan po (Nyatri Tsenpo, anno 127 a.C.) il primo Sovrano di diritto divino, disceso in Terra mediante una "corda celeste" nei pressi del castello di Yum bu bla sgang [1] (Yumbulhakhang) nella Valle dello Yar kLungs (Yarlung).

Secondo la leggenda, con il passare dei secoli si sarebbe avuta una transizione dalle monarchie di stampo divino a quelle di stampo semidivino, ed infine a quelle di natura prettamente terrena.

Le prime testimonianze di fatti pienamente storici sono invece incentrate sulla figura del monarca Srong brtsan sgam po (Songtsen Gampo, c.600-649), considerato il primo re effettivo del Tibet, ambizioso e modernizzatore, fautore di una politica espansionistica e di un accentuato centralismo.

Al 635 risale l'iniziativa del suo ministro Ton me bsan bu ta (Thönmi Sambota), volta a dotare la lingua tibetana di un sistema di scrittura basato su quello delle lingue di matrice indiana. Altre innovazioni riguardarono il passaggio dalla società tribale a quella feudale, l'introduzione di un sistema di pesi e misure, la riforma della giustizia e la costituzione di un potente esercito.

Sul fronte meridionale del subcontinente indiano la pace era garantita mediante la politica diplomatica, mentre verso nord le armate tibetane mossero in direzione delle odierne zone del Kaśamira (Kashmir), del La dwags (Ladakh) e dello Zangs skar (Zanskar).

Nel 638, ritenendo di aver acquisito sufficiente forza, Songtsen Gampo decise di attaccare direttamente la Cina, giungendo fino alla pianura del Sìchuan ed ottenendo in virtù di tale posizione di forza il matrimonio con la principessa imperiale Táng Mung chang (Wénchéng).

A tale principessa furono attribuiti, dalle successive cronache, dei caratteri divini come manifestazione della Tārā Bianca, una divinità del pantheon buddhista.

In modo simile, anche la moglie nepalese Khri btsun (Bhrikuti Devi), figlia del re Ṭhākurī Aṃshuvarmā, fu vista dai posteri come manifestazione della Tārā Verde.

A quel tempo il sovrano tibetano professava la locale religione sciamanica Bon, ma la tradizione vuole la sua conversione al buddhismo da parte delle spose straniere.

Le leggende narrano inoltre della scoperta, da parte della principessa Wénchéng, del corpo di un demone esteso sull'intera superficie del Tibet, avente il cuore malefico sul fondo di un lago. Prosciugato quest'ultimo, vi si costruì un tempio nel centro, in corrispondenza dell'attuale tempio del gTsug lag khang (Jokhang).
Fra i vari sacelli costruiti in tutto il paese si distingue quello di Ra mo che (Ramoche), ove fu collocata la preziosa statua di Jo bo Rin po che, portata dalla Cina per volontà della stessa principessa.

Il valore di tali narrazioni risulta caratterizzato da una forte connotazione simbolica, finalizzata da un lato all'esaltazione del Tibet come potenza regionale del tempo, e dall'altro ad evidenziare il ruolo preminente della religione buddhista nella storia del Tibet.

Le due spose, quella cinese e quella nepalese, indicherebbero anche la crescente rilevanza militare del monarca di Yarlung e la volontà di quest'ultimo di stabilire nuove relazioni con le potenze limitrofe.

I contatti con la Cina permisero di introdurre alla corte tibetana alcune innovazioni, quali l'inchiostro e la carta per la scrittura, l'uso della porcellana e degli abiti di seta.

Sotto i successivi sovrani Khri srong lde brtsan (Trisong Detsen, c.742-797) e Khri ral pa can (Ralpachen, c.806-836), il paese continuò ad ingrandirsi in direzione di numerose oasi della Via della Seta.

In questo periodo le forze armate tibetane sconfissero nuovamente l'impero Táng, giungendo nel 763 fino alla capitale imperiale Chang'an (odierna Xī'ān), esigendo insieme ai nuovi confini il pagamento di un forte tributo annuo.

L'impero tibetano raggiunse la massima estensione nell'810 con la presa di Samarcanda, ottenendo in tal modo, seppure per un breve lasso di tempo, il controllo militare della Via della seta.

In merito alle questioni religiose, si deve al re Trisong Detsen l'invito ai maestri buddhisti indiani per recarsi a diffondere il buddhismo in Tibet. Fra essi, si enumerano il teorico Śāntarakṣita e l'esoterico Padmasambhava (il Gurū Rinpoche, Prezioso Maestro). La prevalenza delle dottrine indiane nel campo religioso ebbe origine nell'evento conosciuto come dibattito di bSam yas (Samye), un concilio indetto nel 794 per risolvere le divergenze tra i fautori della scuola buddhista di ispirazione indiana ed i fautori della scuola cinese.

Nell'822 venne ratificato il trattato che stabiliva la fine dei conflitti armati tra il Tibet e la Cina, insieme alla demarcazione delle rispettive aree d'influenza. Dalla stele di Lhasa, l'unica delle tre copie originali giunta sino a noi, si legge: «Poiché l'intera regione ad oriente è il paese della Grande Cina e l'intera regione ad occidente è indubitabilmente il paese del Grande Tibet, alle frontiere non vi sarà più fumo, né polvere, né sorgeranno in futuro liti ostili, né invasioni armate e neppure vi potranno risuonare parole offensive o minacciose […]» [2].

La decadenza dell'impero tibetano fu evidente verso la metà del IX secolo, con l'apostasia del re Glang dar ma (Langdarma), che decretò il ritorno all'animismo e la repressione del culto buddhista, cui seguì anche la disgregazione dell'unità sociale e territoriale.

Dopo l'assassinio di Langdarma e l'estinzione della dinastia di Yarlung, il Tibet conobbe un periodo di instabilità, unita all'indebolimento del sistema amministrativo ed alla costituzione dei primi ordini buddhisti strutturati che avrebbero in seguito esercitato, a periodi alterni, sia il potere spirituale che quello temporale. Il paese, ormai disgregato in numerosi principati autonomi e scomparso come potenza militare, iniziò ad essere permeato dall'influenza della religione buddhista, legandosi progressivamente alla sfera spirituale indiana in ragione della traduzione e della diffusione dei testi sanscriti.

È l'età del «medioevo tibetano», della frammentazione politica e sociale, ma anche dei maestri eccellenti, dei poeti, dei santi e di coloro che in seguito ai viaggi in India diffusero la religione, le arti e la poesia. Fra essi si ricordano Atīśa (Atisha), maestro indiano che diffuse la dottrina buddhista nel Tibet occidentale; Rin chen bZang po (Rinchen Zangpo), maestro e traduttore; Mar pa (Marpa), altro fondamentale traduttore di testi dalle lingue indiane al tibetano e fondatore del lignaggio bKa' rgyud (Kagyu); il santo Mi la Ras pa (Milarepa), taumaturgo, mago e poeta.

Si parla in tale epoca di «rinascita del buddhismo», anche se si trattò della prima reale ondata di diffusione popolare di questo culto, prima relegato alle élite della Corte.
In questo periodo visse la personalità poliedrica di Thang stong rGyal po (Thangtong Gyalpo), ingegnere e costruttore di ponti sospesi tibetani, alcuni d'epoca tuttora in uso, e fondatore dell'Ache Lhamo, il teatro tibetano.

Nel 1056 si costituì l'ordine bKa' gdams (Kadam), contemporaneamente alla ri-strutturazione dell'ordine rNying ma (Nyingma).

Nel XIII secolo, capeggiata dall'abate Kun dga' rGyal mtshan (Sakya Pandita), notevole rilevanza fu acquisita dalla scuola religiosa Sa skya (Sakya), fondata nel 1073.

Durante tale epoca, sia gli eserciti musulmani dell'India settentrionale che le orde mongole di Gengis Khan si accinsero ad invadere il Tibet: mentre i primi furono fermati dai rilievi himalayani, i secondi non trovarono ostacoli né resistenza. Alcuni principi tibetani locali offrirono spontaneamente l'atto di sottomissione ai mongoli.

Le armate mongole, proseguendo il cammino verso oriente, si arrestarono solo di fronte all'oceano. La Cina fu conquistata e Kubilai Khan (1215-1294) fu elevato alla dignità di primo imperatore della dinastia Yuán.

Nel 1240 Godan, figlio del capo Ogedei e nipote di Gengis Khan, raggiunse il Tibet e conferì il potere di governo al lama Sakya Pandita in cambio del riconoscimento della sovranità mongola e dell'istruzione religiosa per se stesso ed i suoi successori. La scuola Sakya assurse pertanto ad una posizione di preminenza politica con il sostegno delle tribù mongole, in particolare contro le dinastie autoctone del Tibet centrale ed occidentale.

Successivamente, nel 1260, Sakya Pandita fu nominato Precettore imperiale dal Gran Khan Kubilai, con la facoltà di predicare il buddhismo su tutto il territorio governato dalla dinastia mongola Yuán.

Si venne così a creare il rapporto che i tibetani chiamarono mChod (sacerdote) e Yon (protettore), sopravvissuto fino alla proclamazione della Repubblica cinese nel 1912. Tale istituto, chiave di volta delle successive rivendicazioni, presupponeva una superiorità dell'imperatore cinese nella sfera degli affari civili ed una preminenza del lama tibetano in quelle spirituali secondo un reciproco rapporto di tipo maestro-allievo.

Entro il 1271 il Tibet si poté ormai definire un protettorato dell'Impero mongolo (si noti: “mongolo” e non “cinese” in senso stretto. La dinastia mongola fu inclusa tra quelle della cronologia cinese solo in tempi successivi). La perdita dell'autonomia politica originò un notevole frazionamento, fomentando numerosi conflitti e favorendo l'affermazione del clan dei Phag mo gru (Pamotrupa), una famiglia di feudatari di estrazione laica. Questi ultimi, battuti militarmente i Sakya nel 1358, conservarono il dominio sul Tibet centrale fino al 1435.

Nel corso del secolo XV, l'influenza della scuola Sakya andava ormai declinando anche dal lato dottrinale a favore dell'ordine riformato dGe lugs (Gelug), fondato sul finire del XIV secolo dall'abate Tsong kha pa (Tsongkhapa).

bSod nams rGya mtsho (Sönam Gyatso), terzo abate Gelug del monastero 'Bras spungs (Drepung), ricevette il titolo onorifico di Ta le (o Dalai, ovvero «Oceano [di saggezza]») dal capo mongolo Altan Khan. Tale qualifica fu attribuita retroattivamente anche ai due predecessori, originando così il lignaggio dei Dalai Lama [3].

La Cina della dinastia Míng volle mantenere relazioni cordiali con il Tibet, fattore sfruttato dagli imperatori per conservare il consenso presso i sudditi di religione buddhista. A tal fine, il sovrano Yǒnglè ebbe interesse per le scuole buddhiste tibetane Karma bKa' rgyud (Karma Kagyu) e Gelug.

Dal punto di vista politico, i Míng riconobbero alla famiglia Pamotrupa la sovranità sul Tibet centrale, ed ai principi di Ling e di Go 'jo (Gonjo) il dominio sul Tibet orientale (1407). Tali atti però non implicarono un reale rapporto vassallatico, costituendo un mero titolo di onorificenza, volto ad aumentare il prestigio reciproco dei principi tibetani e del monarca cinese.

Nel quarto decennio del XV secolo il declino dei Pamotrupa favorì l'ascesa del clan dei Rin spungs (Rinpung), che a loro volta dominarono la scena del potere civile fino al 1565.

In seguito furono i re di gTsang (Tsang) a governare la maggior parte del territorio tibetano fino all'avvento politico della scuola religiosa Gelug.

L'affermazione stabile del cesaropapismo nel Tibet è da ricondursi al regno del V Dalai Lama Ngag dbang bLo bzang rGya mtsho (Lobsang Gyatso, 1617-1682), che riunì le caratteristiche del monarca temporale e del capo spirituale. Al 1642 risale l'investitura ricevuta dal capo mongolo Gushri Khan come signore di tutto il paese.

Negli stessi anni, una nuova dinastia assunse il potere in Cina in seguito alla caduta dei Míng: erano i Qīng, originari dell'area mancese. Il primo imperatore manciù, Shùnzhì, invitò Lobsang Gyatso a Pechino. Dopo alcune esitazioni egli si accinse ad intraprendere il viaggio, giungendovi nel 1652.

Le fonti divergono notevolmente sulla descrizione dell'incontro: da parte cinese si disse che il Dalai Lama accennò ad un atto di omaggio verso l'imperatore, mentre da parte tibetana si tramandò un semplice saluto tra personalità di pari ruolo. L'unico punto di convergenza riguardò la reciproca assegnazione di alcuni titoli onorifici, che non implicavano vincoli di sottomissione [4].

Nel XVII secolo il Tibet conobbe un lungo periodo di stabilità, grazie all'unificazione avvenuta sotto il governo del V Dalai Lama, anche se il fattore di coesione territoriale che aveva contribuito a creare scomparve nell'arco di pochi anni dopo la sua morte [5].

Il suo successore, il VI Dalai Lama Tshangs dbyangs rGya mtsho (Tsangyang Gyatso, 1683-1706), non seppe intraprendere né una forte azione di politica interna, né una politica estera che gli assicurasse l'appoggio delle tribù mongole in lotta per il predominio sul Tibet. Personalità sensibile e fine letterato, amante della mondanità e poco incline alla vita cenobitica, non aveva alcuna dimestichezza con l'arte della guerra, finendo assassinato a soli 23 anni durante una congiura di palazzo.

In questo periodo il paese fu raggiunto da alcune missioni cristiane, in particolare quella del gesuita Ippolito Desideri (1684-1733) e quella del frate cappuccino Francesco Orazio Olivieri da Pennabilli (Orazio della Penna, 1680-1745). Quest'ultimo fu autore di un dizionario tra tibetano ed italiano, il primo mai compilato, per un totale di oltre trentamila vocaboli tradotti.

L'imperatore cinese Kangxi. © Lorenzo Rossetti
L'imperatore cinese Kāngxī
schizzo dell'autore

A causa della minaccia mongola incombente sul Tibet, verso il principio del XVIII secolo il governo tibetano invocò l'intervento della Cina. Come compenso per la vittoriosa azione militare, l'imperatore Kāngxī (1654-1722) volle stabilire la tutela del Celeste Impero sul Tibet.
Furono insediati a Lhasa due Amban (alti ufficiali Manciù), che vi rimasero per i due secoli successivi.

Intanto, durante l'esilio del VII Dalai Lama bsKal bzang rGya mtsho (Kelzang Gyatso, 1708-1757) nel Tibet orientale, una figura laica aveva preso nuovamente il potere a Lhasa: si trattava dell'ufficiale militare Pho lha bSod nams sTobs rgyas (Pholhana), fedele alla Cina, che governò dal 1728 al 1747. Promotore di una relativa pacificazione, consentì il ritorno del Dalai Lama dall'esilio, riuscendo a ristabilire una fragile pace sociale e riallacciando le relazioni diplomatiche con i mongoli.

Il paese, geograficamente isolato ed economicamente improduttivo, non fu oggetto di una stretta tutela da parte dell'Impero di Mezzo, preoccupato prevalentemente di difenderne il territorio dagli attacchi dei paesi confinanti.

La svolta si ebbe con l'inettitudine del figlio di Pholhana, Gyur med rNam rgyal (Gyurme Namgyal), fatto infine assassinare per ordine degli Amban (1750). Ritornava pertanto la tutela diretta del Celeste Impero sul Tibet ed il conferimento, da parte dell'imperatore cinese Qiánlóng (1711-1799), della facoltà di governo al VII Dalai Lama.

Sul fronte meridionale, la politica espansionistica perseguita dal Nepal negli anni successivi all'unificazione (1768) ad opera del re Pṛthvī Nārāyaṇa Śāha (Prithvi Narayan Shah), portò allo scoppio della guerra tibeto-nepalese che, a causa della debolezza tibetana, vide nel 1788 l'imposizione di un pesante tributo di guerra da parte dell'esercito gorkhā. Anche in tal caso fu risolutivo l'intervento cinese, che ricacciò in breve tempo i nepalesi fino alle porte di Kathmandu.

Di conseguenza, i rapporti tra il Tibet e la Cina furono ulteriormente consolidati mediante la promulgazione, per volontà dell'imperatore Qiánlóng, di un regolamento in 29 articoli (1793) che stabiliva le modalità di esercizio del protettorato, definendo in modo particolareggiato la gerarchia delle cariche, istituendo l'obbligo della conferma imperiale cinese per le cariche civili tibetane e stabilendo il sistema dell'Urna d'oro per l'elezione delle principali cariche religiose.

Il XIX secolo fu un periodo caratterizzato da un allentamento delle relazioni sino-tibetane dovuto ai relativi problemi interni. Dopo la morte di Qiánlóng, in Cina iniziò un lungo processo di declino della dinastia Qīng, mentre il Tibet fu preda della forte conflittualità instauratasi tra laici, fazioni nobiliari ed ordini religiosi. Contemporaneamente si verificarono alcuni tentativi nepalesi, britannici e russi di egemonizzazione del paese, quasi tutti falliti o forieri di scarsi successi.

Nel 1904 la spedizione britannica guidata dal colonnello Younghusband riuscì a penetrare con le armi fino a Gyantse, e successivamente fino a Lhasa. La convenzione che ne derivò stabilì una priorità britannica sul Tibet ed il divieto di ingerenza per qualsiasi altra potenza straniera.

Il Dalai Lama aveva riparato nel frattempo in Mongolia. Se in un primo tempo la Cina disconobbe la convenzione, in un secondo tempo accettò di pagare l'indennità ivi prevista, desiderando ribadire la propria sovranità sul territorio tibetano.

Con il successivo Trattato di Pechino (1906), la Gran Bretagna rinunciò alle proprie ambizioni espansionistiche sul Tibet, lasciando il campo libero alla Cina. Quest'ultima procedette manu militari alla pacificazione della turbolenta regione orientale della zona etnolinguistica tibetana in seguito ad alcuni gravi episodi di ribellione.

Nel 1910 l'ormai decadente impero Qīng decise di invadere il Tibet per riservarsene definitivamente la sovranità, causando la fuga in India del XIII Dalai Lama Thub bstan rGya mtsho (Thubten Gyatso).

L'azione non fu però portata a termine. Rovesciata la monarchia cinese, il primo gennaio del 1912 Sūn Zhōngshān (Sun Yat-sen) proclamò la repubblica assumendone la presidenza.
Il 28 ottobre 1912 il governo repubblicano promulgò un decreto nel quale si asseriva che, anche sotto il nuovo assetto politico, la Cina avrebbe garantito la protezione al sovrano tibetano e al suo popolo.

Thubten Gyatso, tornato in patria, rispose che, essendosi dissolto il legame personale “sacerdoteprotettore” tra il Dalai Lama e l'Imperatore, il Tibet non avrebbe più usufruito della tutela cinese.

Il 4 febbraio 1913 il XIII Dalai Lama proclamò quella che è da molti ritenuta la dichiarazione d'indipendenza del Tibet: «Io [Dalai Lama] sono tornato nel mio sacro e legittimo paese, e sto ora procedendo ad espellere le residue truppe cinesi da Do-Kham nel Tibet orientale. L'intenzione cinese di colonizzare il Tibet per mezzo della relazione sacerdote-protettore è adesso sfumata come un arcobaleno nel cielo», ed ancora: «Siamo una nazione piccola, religiosa ed indipendente. [...] Per adeguarci al resto del mondo dobbiamo difendere il nostro paese. Ognuno di noi dovrà lavorare duramente per salvaguardare e mantenere la nostra indipendenza» [6].

A queste parole seguirono la cacciata degli Amban e dei pochi ufficiali cinesi ancora residenti a Lhasa.

Il governo della Repubblica cinese, dal canto suo, offrì la revisione dei trattati per adeguare lo status del Tibet al nuovo assetto istituzionale. Le posizioni cinesi furono rifiutate integralmente dalla parte tibetana.

Nel 1913 il Tibet e la Cina furono invitati separatamente alla conferenza di Śimla, convocata dalla Gran Bretagna in merito all'assetto geopolitico dell'Asia. La Gran Bretagna dichiarò di poter riconoscere una limitata sovranità ma non l'indipendenza tibetana, mentre la Cina lasciò la conferenza senza attendere la fine dei lavori.

Per contro, si delineò in via informale un Tibet Esterno, autonomo ed indipendente con capitale Lhasa, ed un Tibet Interno, formato dalle zone di etnia e lingua tibetana sotto la tutela cinese.

Dal 1913 al 1933 non fu permessa la presenza di truppe militari o funzionari cinesi sul territorio amministrato da Lhasa. Dal 1933 in poi fu permessa nuovamente l'esistenza di un ufficio con un funzionario cinese, che però non fu mai riconosciuto dal Tibet come rappresentante di una sovranità esterna. Il paese rimase pertanto in uno status di indipendenza de facto fino al 1951.

In Cina, dopo la morte del presidente Yuán Shìkai, i nazionalisti del Guómíndǎng (Kuomintang) di Jiǎng Jièshí (Chiang Kai-shek) ed i comunisti di Máo Zédōng (Mao Tse-tung) furono coinvolti in una lunga battaglia per il potere interrottasi solo durante il periodo dell'invasione giapponese, e conclusasi nel 1949 con la vittoria di Mao Tse-tung e la fuga di Chiang Kai-shek sull'isola di Formosa (Taiwan).

Il XIII Dalai Lama Thubten Gyatso
Il XIII Dalai Lama Thubten Gyatso
schizzo dell'autore

Durante tale periodo il Tibet si isolò volontariamente, rimanendo pressoché estraneo sia agli avvenimenti di portata mondiale che alle vicende dei paesi confinanti.
Il programma riformista del XIII Dalai Lama e del ministro Tsha rong (Tsarong) riguardo a trasporti, istruzione, comunicazioni, moneta e pubblica amministrazione ebbe vita breve a causa della strenua opposizione del clero. Il paese si ritrovò pertanto, al volgere della metà del secolo, del tutto impreparato alle sfide che lo avrebbero atteso.

In seguito alla morte di Thubten Gyatso nel 1933, fu riconosciuto come nuovo Dalai Lama bsTan 'dzin rGya mtsho (Tenzin Gyatso), nato nel 1935.

Tra il 1933 ed il 1951 vi fu un periodo di turbolenze interne dominate dal conflitto tra le fazioni sostenitrici dei due reggenti, l'abate di Rva sgreng (Reting) e l'abate di sTag brag (Tagtra) che si avvicendarono alla massima carica del Tibet durante l'infanzia del XIV Dalai Lama.

Terminata la guerra civile in Cina, tra il 1949 ed il 1951 il governo della Repubblica popolare cinese diresse la campagna militare volta, secondo le espressioni propagandistiche, alla «liberazione» del Tibet, considerato servo del «giogo imperialista» [7].

L'esercito tibetano, poco numeroso e male attrezzato, combatté secondo le proprie scarse possibilità, ma non fu in grado di resistere all'assalto di un moderno esercito temprato da numerosi anni di guerra.

Nell'ottobre 1950 l'Armata di liberazione popolare entrò a Chamdo (Tibet orientale) quasi senza incontrare ostacoli. Il 23 maggio 1951, i delegati del governo tibetano raggiunsero Pechino per firmare un accordo in diciassette punti, ove si affermava che il popolo tibetano sarebbe «ritornato nella grande famiglia della madrepatria, la Repubblica Popolare Cinese».

Il Dalai Lama fu integrato nell'organico governativo cinese come «Vicepresidente dell'Assemblea nazionale della Repubblica popolare cinese» [8], titolo altisonante ma puramente onorifico.

Il vecchio governo tibetano, pur rimanendo formalmente in carica, perse il potere esecutivo, che fu assunto in ultima istanza da una giunta militare.

A partire dal 1951 le richieste delle truppe stanziate in Tibet si fecero sempre più consistenti, tanto da scatenare una carestia, aggravata dall'attuazione della riforma agraria e dalla fallimentare promozione di colture alloctone in luogo del tradizionale orzo.

Gli abitanti della capitale, riuniti nel Mi mang Tsong du (assemblea popolare), si accinsero ad avanzare critiche sempre più aspre verso l'amministrazione militare cinese, non solo contro l'aumento dei prezzi delle derrate alimentari, ma anche contro i metodi di reclutamento dell'esercito e la limitazione dei poteri del Dalai Lama.

Il Primo ministro tibetano kLu khang ba (Lukhangwa) rassegnò le dimissioni nel 1952, in seguito alla richiesta della giunta militare di integrare l'esercito tibetano nell'Armata di liberazione popolare e di sostituire la bandiera tibetana con quella della Cina. In seguito nessuno fu più nominato, e la carica rimase vacante [9].

Nel 1954 il Dalai Lama si recò a Pechino per partecipare ai lavori dell'Assemblea nazionale della Repubblica popolare cinese, intrattenendo numerosi colloqui con Mao Tse-tung, che fecero sperare in una risoluzione dei problemi ed in una cauta distensione tra le parti.

Contrariamente alle premesse, tornata la delegazione in patria, i rapporti non fecero che deteriorarsi per via del crescente malcontento popolare: si verificarono le prime azioni di protesta e di sabotaggio, effettuate da sia da ex militari tibetani entrati in clandestinità, che da civili politicamente attivi nei centri urbani. L'unione di queste forze portò, qualche anno di seguito, alla costituzione del corpo di guerriglia conosciuto come Chu bzhi sgang drug (Chushi Gangdruk, «Quattro fiumi e sei montagne»), sostenuto dai servizi segreti statunitensi nell'ottica della Guerra Fredda.

Il culmine delle tensioni si ebbe con la rivolta di Lhasa del 10 marzo 1959 [10].

Nel timore di un attentato o della deportazione in Cina del Dalai Lama stesso, il governo tibetano progettò la fuga verso l'India, mentre il popolo si riversava attorno al Palazzo del Nor bu gling ka (Norbulingkha), assembrando migliaia di persone armate con mezzi di fortuna.

In tale frangente l'artiglieria cinese avviò un'azione di bombardamento dell'edificio, ma il Dalai Lama aveva già segretamente preso, col favore delle tenebre e travestito da soldato, la via dell'India.

La carovana scese verso sud attraverso le montagne dell'Himalaya, varcando il confine indiano ed arrivando dopo alcuni giorni di viaggio a Tezapura, città dell'Assam [11].
Il governo tibetano fu dichiarato illegale da parte della Repubblica popolare cinese il 28 marzo 1959.

Il Dalai Lama fu accolto in veste di capo religioso dal Primo ministro indiano Javāharalāla Nehru (Jawaharlal Nehru), che assegnò ai profughi un primo insediamento presso Massūrī (Mussoorie), ex località di villeggiatura britannica a ridosso dell'Himalaya. Qui Tenzin Gyatso costituì ufficialmente il Governo tibetano in esilio, ed il suo primo atto fu la denuncia dell'«accordo in diciassette punti», ovvero le condizioni d'occupazione imposte dalla Cina nel 1951.

Dopo il breve periodo di Mussoorie, il governo provvisorio del Tibet trovò la sua sede definitiva a Dharamaśālā (Dharamsala), ove opera tutt'oggi con le proprie istituzioni democratizzate: il bKa' shag o Kashag (Consiglio dei ministri), l'Assemblea del popolo tibetano (parlamento eletto dai tibetani in esilio) e la magistratura per la soluzione delle controversie interne alla comunità dei profughi.

Negli anni successivi e fino ai giorni nostri, le storie dei tibetani esuli e di quelli del Tibet sotto tutela cinese si sono divise e, più raramente, si sono incrociate. La frattura nata dopo il 1959 ha posto anche un problema di legittimità dei soggetti in gioco (governo cinese, governo esule), che dal piano puramente politico si è esteso a quello sociale, religioso ed etnico, coinvolgendo anche le comunità locali e le gerarchie buddhiste.

Per la storia del Tibet dal 1959 ai giorni nostri vedi anche La questione tibetana.



Note
  1. Per la traslitterazione e/o romanizzazione dei nomi di luoghi, cose e persone dal tibetano è stato usato il sistema Wylie. Per il cinese è stato usato il sistema Pinyin con l'indicazione dei toni ed infine, per i vocaboli di derivazione sanscrita, è stato usato il sistema IAST. Sono state indicate tra parentesi anche le trascrizioni fonetiche più diffuse, utilizzate in caso di successive ricorrenze del medesimo termine all'interno del testo.
  2. La stele in questione esiste tuttora ed è ubicata nella città di Lhasa, nei pressi del tempio del Jo khang. Il testo è presente in lingua inglese sul sito internet del Tibet Justice Center, http://www.tibetjustice.org/
  3. L'Abate di Drepung era riconosciuto anche come capo dell'Ordine Gelug. I primi due Dalai Lama, insigniti di tale dignità in modo retroattivo, furono pertanto dGe 'dun grub (Gendun Drup, 1391-1474) e dGe 'dun rGya mtsho (Gendun Gyatso, 1475-1542).
  4. L. Deshayes, Storia del Tibet, Newton Compton, Roma, 1998, p.126
  5. Alla morte del V Dalai Lama il reggente Sangs rgyas rGya mtsho (Sangye Gyatso, 1653-1705) non volle divulgare la notizia per non destabilizzare il paese, adducendo invece un ritiro spirituale del monarca. La verità si scoprì solo dopo quattordici anni, quando non fu più possibile negare l'evidenza della scomparsa di Lobsang Gyatso.
  6. Il testo della dichiarazione è presente in lingua inglese sul sito internet del Tibet Justice Center, http://www.tibetjustice.org/
  7. Radio Pechino, trasmissione del 25 ottobre 1950. Cit. in P. Verni, Dalai Lama. Biografia autorizzata, Jaca Book, Milano, 1990, p.88
  8. A quel tempo l'indirizzo politico della Repubblica popolare cinese era ancora quello di trarre legittimazione mediante l'integrazione delle alte cariche tibetane nella nuova struttura dello stato socialista.
  9. Nel vecchio sistema di governo tibetano conosciuto come dGa' ldan pho brang o Ganden Potrang (Palazzo di Ganden), a tale carica laica ne corrispondeva una speculare di natura religiosa. Alle dimissioni del Primo ministro laico Lukhangwa seguirono anche quelle di bLo bzang bKra shis (Lobsang Tashi), suo omologo appartenente al clero.
  10. In un clima tutt'altro che pacifico, il Dalai Lama fu invitato ad assistere ad una rappresentazione teatrale presso la guarnigione cinese. Fu però specificato che non sarebbe stata ammessa la presenza di alcuna guardia personale.
  11. Pare plausibile che l'esercito cinese non avesse un concreto interesse a fermare la fuga del Dalai Lama, ormai considerato come l'ultimo ostacolo da rimuovere prima di procedere alla realizzazione delle riforme maoiste nel Tibet.

Bibliografia